Benvenuto Signor Diavolo

Chi si dà pensiero per le sorti del cinema di genere italiano e la sua presunta morte per un po' può mettersi il cuore in pace, perché ci ha pensato un vivo e vegeto Pupi Avati a farsene carico con il suo quarantesimo lungometraggio cinematografico. A 80 anni (quasi 81!) il maestro dell'horror padano (e non solo...) firma un'opera intensa, affascinante e suggestiva, in cui fanno da sfondo luci, ombre e contraddizioni di quella Democrazia Cristiana che a lungo ha guidato le sorti dell'Italia, influenzandone non poco anche gli aspetti culturali.
Prodotto dalla Duea Film con Rai Cinema e ambientato nella cattolicissima provincia veneta del 1952 (perfettamente ricostruita), il film segue le vicende dell'istruttoria sull'omicidio dell'adolescente Emilio Vestry Musi, guardato con sospetto da tutti e additato per alcune deformità fisiche, che la superstizione religiosa popolare identifica come segni demoniaci. La madre della vittima, appartenente a un'illustre famiglia locale fervida sostenitrice della DC, dopo l'uccisione del figlio diventa un'acerrima nemica del governo spinta dal rancore e dal dolore. L'omicida è il quattordicenne Carlo Mongiorgi, amico di Paolino, il quale, per farsi bello agli occhi della ragazza più carina del paese, aveva umiliato Emilio davanti a tutti, attirando su di sé l'ira del ragazzo. Qualche giorno dopo, durante la cerimonia delle Prime Comunioni, Paolino, spintonato da Emilio per ripicca, aveva fatto cadere l'ostia e l'aveva accidentalmente calpestata, dando inizio a una serie di eventi sconvolgenti. Per timore di perdere lo zoccolo elettorale veneto, il Ministero di Grazia e Giustizia invia quindi il giovane funzionario Furio Momenté, affinché conduca un'indagine parallela, faccia luce sulla vicenda e trovi elementi che smentiscano il coinvolgimento di membri ecclesiastici, possibilmente insabbiando il caso.
Tratta dal romanzo omonimo dello stesso Avati, ma con finale completamente diverso, la sceneggiatura è frutto di una scrittura cinematografica esperta, attenta e asciutta, che si mostra compatta e ritmata con dialoghi convincenti e varie scene di contorno decisamente godibili, caratterizzate da personaggi secondari ben tratteggiati come quelli principali. Le fonti d'ispirazione sono quelle care all'autore e da sempre presenti nella sua filmografia horrorifica, ossia la mitologia contadina, i culti esoterici, il satanismo, il senso del peccato e della paura, questi due intimamente connessi con la cultura cattolica. La regia, inutile dirlo, è sicura e ben orchestrata, con il giusto peso dato alle varie parti del film e la scelta di movimenti di macchina e inquadrature talvolta insolite e davvero interessanti, con un prevalere di quelle impostate dal basso verso l'alto, quasi a significare il senso di schiacciamento che la Chiesa, il divino o il potere in generale esercitano sulla gente comune. Uno degli aspetti più interessanti è proprio l'uso metaforico che Avati fa del genere, per parlare di un periodo della storia politica italiana, i cui echi si ripercuotono tuttora su quella attuale e, senza che ne siamo consapevoli, anche sul nostro agire quotidiano: la vergogna, il bisogno di nascondere e occultare, di agire nell'ombra e manipolare tanto le coscienze quanto l'opinione pubblica. Tutto ciò fa di questo film un'opera più profonda di quanto possa apparire a uno spettatore distratto, in linea con quello a cui Avati ci ha abituato. Niente, o quasi, è come sembra.
Molto bravi gli interpreti, diretti tutti in maniera convincente e senza quegli eccessi attoriali che troppo spesso nel cinema italiano  contemporaneo sfociano nell'overacting. Da citare i bravissimi ragazzini nei panni di Carlo (Filippo Franchini) e Paolino (Riccardo Claut), Lorenzo Salvatori in quelli di Emilio, il cui sguardo e volto già da soli raccontano una storia e si sposano perfettamente con le atmosfere del film. E poi ancora Lino Capolicchio che interpreta il parroco Don Zanini, Gianni Cavina (il sagrestano), gli eccellenti camei di Alessandro Haber (padre Amedeo) e Andrea Roncato (dott. Rubei). Resta impresso, convince e a tratti diverte il personaggio emaciato di Furio (Gabriel Lo Giudice), timido e represso funzionario del Ministero, che, nonostante il suo aspetto, attira gli sguardi di tutte le donne che incrocia e vede nella missione affidatagli la tanta agognata occasione di riscatto professionale e personale. Inquietante ed enigmatica la figura della madre di Emilio, tratteggiata da Chiara Caselli con una convinzione tale che riesce a far arrivare allo spettatore il mondo interiore del personaggio e, soprattutto, il suo "non detto". Sono molti gli interpreti di questo film che colpiscono, un paio di essi forse però penalizzati da un make-up un po' troppo pesante.
L'effettistica porta la firma del leggendario Sergio Stivaletti e si vede: le sue creazioni esprimono tutta la sua maestria artistica e artigianale, che viene messa al servizio della narrazione senza prevaricarla, convincendo e stupendo ancora una volta.
Interessante la ricerca fatta sul sonoro, utilizzato per creare il giusto mood e far scivolare lo spettatore nell'atmosfera densa del film. Risultato riuscito anche grazie al particolare accompagnamento musicale (Amedeo Tommasi), che in alcuni passaggi ricorda in chiave dark il Vangelis di Blade Runner. Il montaggio è affidato al bravo Ivan Zuccon, a sua volta apprezzato regista horror, che ricama perfettamente le varie parti del racconto, con una sintassi precisa, ma dal tocco personale. Forse si sente l'uso di qualche slow motion di troppo, anche se questo complessivamente non influsice sulla fruizione.
Se vi state domandando se Il Signor Diavolo faccia paura, la risposta è sì e il film mette le cose in chiaro fin dall'inizio, sebbene la paura sia e resti un fattore del tutto soggettivo. Si tratta però di una paura non basata sul classico jump scare all'americana, ma di una paura strisciante, un disagio che s'insinua inconsciamente sottopelle inquietando. È un film dall'atmosfera densa, contorta, malata, che ti si attacca e resta addosso una volta usciti dalla sala, grazie anche a una fotografia livida e "terrosa" molto suggestiva (Cesare Bastelli), a cui aggiungono ulteriori suggestioni il solitario e desolato paesaggio padano, ritratto con scorci affascinanti. Un'opera raffinata da non perdere sia per gli amanti del genere che per gli estimatori del regista bolognese.




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