IT 2 ovvero "non ci siamo - parte seconda"

Torna il secondo e ultimo capitolo della nuova trasposizione di IT, tratta dall'omonimo romanzo del re del brivido Stephen King. Hype altissimo e, come il precedente, prevedibile campione d'incassi milionari sfracella-botteghino già nel primo weekend di programmazione, il film si riconferma una vera manna dal cielo per i produttori e una boccata d'ossigeno per gli esercenti cinematografici.
Così come il precedente episodio il risultato non è però, ahimé, soddisfacente. Fin dall'inizio è tuttavia lampante che questo secondo capitolo è superiore al primo, riuscendo perfino a rendere convincente la rischiosa e diversa ambientazione cronologica rispetto al romanzo: 1989 e 2016 nella versione cinematografica, 1957 e 1984 nell'originale di Stephen King, che nel film si ritaglia un piccolo cameo come gestore del mercatino dell'usato in cui Bill Denbrough trova la sua vecchia bicicletta "Silver". Sia chiaro, la pellicola di Andrés Muschietti è visivamente sontuosa, esteticamente molto bella, con soluzioni registiche azzeccate e movimenti di macchina raffinati ed eleganti. Il film inizialmente coinvolge e sembrerebbe convincere più del primo capitolo quanti abbiano amato il romanzo originario, grazie anche a un cast eccellente e affiatato, tra cui la stupenda (e brava) Jessica Chastain nel ruolo di Beverly Marsh. Ottimo il lavoro fatto a livello di casting, con una notevole somiglianza fisica e corrispondenza caratteriale tra gli attori che interpretano i personaggi da adulti e le loro controparti da ragazzini.
Ci si diverte anche, grazie a una sottile ironia che accompagna le vicende e sottende il rapporto tra i personaggi. Tuttavia a un certo punto ci si rende conto che la sceneggiatura semplifica troppo la trama originaria e si riduce a un susseguirsi di flashback, difettando di un vero e proprio sviluppo che porti avanti la storia. A ciò si aggiungano le "licenze narrative" (alcune riuscite, altre meno) che il regista prende e che diventano via via più numerose man mano che ci si addentra nei ben 169 minuti della pellicola, fino ad arrivare a un finale rocambolesco molto diverso dall'originale kinghiano, nonché eccessivo, assurdo e scricchiolante nella coerenze interne, complice l'andare a scomodare pure confusi e non ben precisati rituali indiani assenti nella matrice letteraria. Erano già così tanti gli elementi e gli spunti presenti nel romanzo che non si capisce perché Muschietti abbia sentito l'esigenza di aggiungerne di nuovi di suo pugno. Ci si chiede soprattutto come possa Stephen King aver dato il suo benestare a quest'enorme pasticcio, che diventa evidente nella parte conclusiva del film.
Un'altra significativa pecca della pellicola è che non fa paura: se il romanzo è intriso di un senso d'inquietudine e terrore striscianti, un'atmosfera densa che s'infila sotto pelle a poco a poco che il lettore procede nelle pagine del libro, nel film lo spavento è tutto affidato esclusivamente a ripetuti e sterili "jumpscare" che lasciano il tempo che trovano. È, in poche parole, una paura senz'anima, un puro esercizio virtuosistico ed estetico. Come se ciò non bastasse, sia nel primo che nel secondo capitolo cinematografico vengono meno quelle riflessioni esistenziali e quei piccoli grandi "riti di passaggio" intimamente connessi all'abbandono dell'infanzia e all'entrata nell'età adulta, così potenti, importanti e centrali, vero leit motiv e cuore pulsante dell'opera kinghiana, tanto da renderla capace di parlare e trasmettere profonde emozioni sia a un pubblico di adolescenti che si preparano a diventare grandi sia di quarantenni che si ricordano di quand'erano bambini. Nei film, invece tutto questo si perde, è come annacquato e svaporato in una leggerezza di contenuti che fa delle due pellicole dei banali film di genere che proprio non convincono.
Mi sento poi di fare un appunto anche sul look di Pennywise per cui si è optato in questa versione cinematografica: il suo aspetto è tutt'altro che rassicurante e ci si domanda come sia possibile che un bambino o chiunque altro gli si avvicinino, invece di darsela a gambe levate, come sinceramente avrei fatto e farei io stesso. È un errore registico e produttivo eclatante, perché, oltre a rendere il tutto inverosimile, la paura sarebbe dovuta derivare dal fatto che un personaggio rassicurante, buffo, divertente, ma allo stesso tempo ambiguo come un clown si sarebbe invece rivelato essere un terribile mostro. Pennywise è un adescatore mellifluo, la trasposizione horror e fantastica di un pedofilo, il cui scopo è quello di attrarre le vittime con l'inganno e una parvenza di tranquilla normalità, non quello di far fuggire le proprie potenziali vittime... viene quasi da rimpiangere (ed è grave) la mediocre miniserie televisiva di Tommy Lee Wallace del 1990, nella quale i panni del clown assassino erano vestiti dal grande Tim Curry (lo stesso interprete di The Rocky Horror Picture Show).
Resto quindi dell'idea che già avevo avuto dopo aver visto il primo capitolo: vi consiglio di leggere il romanzo, uno dei capolavori indiscussi del re del brivido, e di lasciar perdere questi due film che non sono niente più che degli horror per ragazzini, anche se sontuosamente confezionati.
Di seguito i relativi trailer:



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