Joker, specchio della società odierna

Joaquin Phoenix è Joker. Joker è Joaquine Phoenix. In queste poche (banali) parole si può riassumere l'essenza di un film potente, necessario e bellissimo, che vede nell'interpretazione del suo attore protagonista un punto altissimo che di sicuro lascerà il segno nella storia del Cinema. Il modo mimetico in cui Phoenix è scivolato nella pelle di Arthur Fleck (alias Joker) ha dell'incredibile ed è frutto di una ricerca tanto psicologica quanto chiaramente istintiva, oltre che fisica (è dimagrito ben 26 kg seguendo una dieta rigidissima per calarsi nella parte, "concentrandosi sulla sottrazione", parole sue). Il risultato va ben oltre a quello già altissimo raggiunto dal compianto Heath Ledger con il suo Joker. Quello di Phoenix è un lavoro immenso, che ha dato vita a una maschera tragica e dolente, specchio dell'uomo contemporaneo, schiacciato, umiliato, vituperato, bullizzato dalla società malata in cui vive. In cui tutti noi viviamo, sempre più alienati e distaccati da ciò che ci circonda e che, forse, veramente conta.
Non si può che provare empatia, tenerezza e commozione per questo uomo dolce, sognatore, buono, timido, introverso, che vorrebbe fare il comico e che cerca in tutti i modi di integrarsi in una società che non lo vuole, non lo capisce e che lui stesso non capisce: lavora, accudisce la madre ammalata, rispetta gli altri. Nessuno però ascolta o cerca di comprendere il suo disagio, il suo sentirsi inadeguato, nemmeno la psicologa che lo ha in cura presso i Servizi Sociali. Lui, che cerca solo "un po' di calore umano".
La società lo mastica, lo sputa e risputa di continuo. E nel suo dolore che diviene rabbia e ribellione esplosiva non possiamo che vedere il riflesso della nostra rabbia, del nostro dolore, del nostro sentirci inadeguati di fronte ai mille soprusi che la vita perpetra verso moltissimi di noi. Il lento scivolare nella follia e nel male di Artur/Joker si compie davanti ai nostri occhi e ne restiamo inevitabilmente coinvolti, ipnotizzati, invischiati ed è ciò che rende così affascinante, cupo e inquietante questo film: il fatto che noi comprendiamo le ragioni di quella follia e che siamo consapevoli che il confine che ci separa da essa è davvero sottile.
Niente è lasciato al caso dalla brillante regia di Todd Phillips, la pellicola è infatti ricca di citazioni e diviene un gioco di scatole cinesi, di simboli nascosti, di specchi che riflettono altri specchi, di maschere vere o reali: bellissimo ad esempio il momento in cui Joker, con già il proprio trucco sul volto, vi indossa sopra la maschera di un clown. La maschera diviene maschera di se stessa, la metamorfosi è totale, la mimesi completa al punto che si arriva a non capire più cosa sia vero e cosa sia falso. Nulla, forse, è come sembra. Ricorrente è il tema rafinatissimo del sorriso: sul volto di Arthur e nella sua risata patologica, sul volto delle persone che lo circondano, sul trucco del clown, su quello bellissimo e asimmetrico di Joker, sulle maschere che la massa in rivolta indossa, nelle scritte che appaiono un po' ovunque. Si tratta tuttavia di un sorriso posticcio e forzato, quel sorriso che la società vuole che le persone indossino ogni giorno sui propri volti, ma che nasconde in realtà le lacrime di una disperazione così profonda da trasformarsi in annichilimento per la psiche e per il corpo.
Il film è chiaramente una profonda metafora del mondo che ci circonda in questo preciso momento storico, in cui l'uomo in quanto essere umano non ha più tempo per se stesso, per i propri cari e vive nella costante angoscia di un'incertezza economica ed esistenziale. Un mondo sporco, marcio, corrotto, sommerso dai rifiuti come la decadente Gotham di inizio anni '80 in cui Arthur vive. Il finale potrebbe però offrire una chiave di lettura dei molti indizi e interrogativi disseminati lungo i 121 minuti in cui si articola la pellicola, portando a una conclusione che rovescia il punto di vista, ma non aggiungo nulla per non spoilerare troppo. È un film indubbiamente coraggioso e molto complesso (più di quanto possa apparire a una prima lettura), che scardina gli stereotipi dei cinecomics (cosa che non è), traghettando il genere a un livello superiore. Un'opera che resta attaccata alla pelle dello spettatore e lavora dentro di lui, nel profondo più cupo della sua anima anche a molti giorni di distanza, giustamente premiata con il Leone d'Oro all'ultima Mostra del Cinema di Venezia. Gran parte del merito, come si diceva, va all'inarrivabile, emozionante, intensa interpretazione da brividi che ci regala un Joaquin Phoenix da Oscar. L'augurio è che l'Academy se ne accorga e lo premi come merita. Perché dopo una simile prova artistica e umana non resta che quell'istante sospeso di silenzio che precede scroscianti applausi.


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